Invincibili Sacchettomani – ROBERTO FAURE

Introduzione.
Anni fa, tra i miei deliri ossessivi ne ho aggiunto uno. Il pensiero dei miliardi di miliardi di sacchetti che ogni giorno vengono inutilmente prodotti, trasportati, distribuiti e che poi finiscono inevitabilmente nelle discariche o in mare mi ossessionava. Ho deciso di non prendere più nessun sacchetto dai negozi e dai supermercati, e di portarmene sempre dietro alcuni datimi precedentemente.
La cosa ha subito assunto una brutta piega, ed ho scoperto che tutti i negozianti sono dei militanti indefessi della distribuzione forzata di sacchetti. Il rifiuto del sacchetto viene preso dai bottegai come un affronto personale. Provare per credere.
Ho sperimentato la via della cortesia (“Ho la casa traboccante di sacchetti, ed i miei familiari si lamentano”, “Ho fatto una scommessa di non prendere sacchetti per un anno”), della minaccia (“Fatevi i fatti vostri”), dell’inganno (ho inventato una setta religiosa di rifiutatori dei sacchetti di cui faccio parte), ma il risultato è sempre lo stesso. Chi rifiuta il sacchetto di plastica viene percepito ed additato come uno scocciatore, uno squilibrato, un piantagrane.
Vi racconto alcune storielle vere che mi sono capitate.
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Via Stadera, passo in bici davanti al ferramenta “Barbagelata dal 1880 a.c.”, non c’è nessuno: miracolo. Mi precipito dentro con la mia bici, compro una latta di vernice, una paletta, 4 bulloni e altro. “Ti do un bel sacchettone” dice il cortese ferramenta, e si avvia nel retrobottega. “Non voglio sacchetti” dico forte per raggiungerlo colla voce.
Torna indietro col sacchettone di plastica in mano, con aria di gentile compatimento, bofonchia “ma dai, è tanta roba…”. Dico: “No, non lo voglio, sei un sacchettomane.”
Lui si avvicina alle merci acquistate da me ed io dico “Guarda che se mi dai il sacchetto vado da Torchio!” (altro storico ferramenta in zona, suo concorrente).
Infilo la roba sotto gli elastici che sono tesi sul portapacchi della mia bici, lui esce dal bancone e vuol far qualcosa. Guarda la bici colla roba legata, dice: “Mi sembra la mia moto quando andavo in Calabria da giovane…”. Contesto: “Vuoi dire che è una poverata?” Improvviso un balletto e canto: “Sacchetti non ne vogliooooo”. Il negozio nel frattempo si è riempito di clienti, che guardano attoniti. Me ne vado senza voltarmi.

Via Frutteto, dal droghiere, compro due bottiglie di sciroppo di menta. Il droghiere senza dir nulla inizia a fasciarle nella carta, poi prenderà certamente un sacchetto di plastica dalla scatola lì pronta all’uopo. Dico: “Perché fascia le bottiglie? Le metto nella mia borsa”. Si ferma attonito, pensa intensamente, poi dice precettivo: “Così le bottiglie non si rompono” (e riprende la fasciatura). Afferro le bottiglie con fare gioviale e le infilo ai due lati della borsa, dico: “Così non si toccano e non possono rompersi”. Vedo che gli sta salendo la bile, so che dirà qualcosa di velenoso, lo prevengo e dico: “Sono laureato”. Lo stupore gli spegne la rabbia, subito aggiungo: “Carta e sacchetti li vogliono gli analfabeti.” Inizia un breve colloquio su argomenti insignificanti, ci congediamo con eccessiva cortesia. Per un po’ non ci torno.

Entro dai verdurai marocchini di Via Frutteto col solito borsone di plastica. Ahmed, il vecchio del negozio (ha 30 anni) che mi conosce bene è su una sedia sulla porta del suo magazzino di fronte al suo negozio, “Ciao zio” mi fa, “Ciao dottore” rispondo.
Dietro il bancone c’è un commesso nuovo, un giovanotto marocchino corpulento, faccia gentile.
Gli allungo la mia borsona con sorriso affabile-imperativo, dico: “3 chili di aranci, per favore mettili qui.” Vedo lieve sconcerto, lui guarda Ahmed che ci segue guardando zitto con attenzione. Lo sguardo di Ahmed risolve, il giovanottone si avvia agli aranci colla mia borsa in mano. Riempie la borsa, so già che ci mette un chilo in più. Mette la borsa sulla bilancia, dice “Son quattro chili…” subito rispondo “Va bene”, lui dice “Grazie”, poi posa la mia borsa a terra e dice: “Poi?”. Dico “Mezzo chilo di cipolle”. Prende le cipolle colle capaci manone, le mette sulla bilancia, repentino prende un sacchetto di plastica e ce le infila dentro sveltissimo.
Mi giro verso Ahmed e sbraito: “Mi dà il sacchetto, vado dagli indiani!”. Gli indiani in realtà sono pachistani del negozio a fianco, che vendono verdura più scadente a prezzi bassi.
Ahmed si alza di scatto, e proferisce rivolto al giovanotto colle mie cipolle sacchettate in mano un breve fiume di parole incomprensibili piene di k, sc, z. Il giovanotto ascolta immobile, subito rovescia le cipolle dal sacchetto nella mia borsona e rimette a posto il suo sacchetto.
“Poi?”. Fragole, dico, e svelto mi chino sulla mia borsa, apro la cerniera esterna, estraggo un sacchetto di carta del pane che mi porto dietro. Lui non mi guarda, prende due cestini di fragole e con voce lamentosa e implorante mi dice aggrottando la fronte: “Questi devo metterli nel sacchetto, sennò si schiacciano”. Poi si accorge che gli sto porgendo con sorriso perfido il mio (identico) sacchetto di carta e dico: “Giustissimo, mettile qui, il tuo sacchetto, che è bellissimo, dallo ai poveri che io ne ho migliaia perché son ricco”.
Il resto della verdura da me richiesta viene rapidamente pesato nudo sulla bilancia, quindi gettato nella mia borsona senza batter ciglio. Pago. “Ciao zio”, “Ciao dottore” e me ne vado.

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