LA FARAONA Oppure Il diritto di mangiare il cuore dell’altro quando ancora è caldo – MGP

Una bella gallina dorata con due cosce piene, il petto sodo, le alette ripiegate ai lati e la
testa appoggiata alla spalla in posizione di supplica.
«Ti ho preparato la faraona arrosto» gli disse e si sedette davanti a lui, dall’altra parte
del tavolo.

La forchetta continuava a punzecchiare l’animale cercando la parte morbida da
trafiggere e proprio nel momento dell’attacco la donna sentì una fitta acuta trapassarle il
cuore, un pensiero strano, un brivido e subito strinse le braccia sul petto.
Il coltello affilato nelle carni bianche e neppure un lamento.
Lo guardava mangiare. Si era sempre stupita della sua voracità, di come assaliva il
cibo pur rimanendo composto, di come riusciva a dimenticare tutto, con lo sguardo perso
nel vuoto della stanza e il piacere goduto per intero dalla punta della forchetta fin dentro
la bocca.

Ancora un brivido e un’altra lama dentro il costato.
Eppure non aveva niente a che fare con l’orco, né peli, né denti aguzzi, ma
ugualmente quell’uomo portava con sé la paura lontana di una bimba minuta e spaurita.
Ci era stata molte volte dietro l’armadio per nascondersi da quell’omaccione e poi chiusa
dentro il bagno per ore, o nell’angolo del letto a rischio di cadere e sulla sedia in fondo al
tavolo, così come ora e lui in mezzo, col respiro di un orso e l’appetito di un leone.

Fissava la coscia completamente ripulita e abbandonata sul piatto. Le sembrava di essere
dimagrita improvvisamente, spolpata fino all’osso. Si guardò le gambe, i muscoli, la pelle
liscia, si era divorato anche le sue forze così come si accaniva a spolpare quel pollo.
Da quanti anni aveva quel pensiero?

Si era nascosto dietro un calendario di giorni feriali, neppure uno spiraglio tra una notte e
l’altra. Da quanto durava?

Da sempre, ed ora era chiarissimo non c’erano più ragioni dietro, le giustificazioni si
erano scollate dai fatti e rimaneva spoglia l’arroganza del gesto, l’indifferenza, anzi la
soddisfazione di vederla così impedita, costretta, incapace di prendere iniziative ormai, di
pensare. Era sufficiente per lui non muoversi, non rispondere e lasciarla là, in attesa,
perché gli piaceva molto tenerla in sospeso.

La forchetta rovistava nella pancia per recuperare le parti interne imbevute di olio e
rosmarino: il fegato, il cuore, il durello; un boccone, un altro, un altro ancora, con la
bocca infilata dentro le viscere della sua preda e quella con le gambe per aria senza
potergli nemmeno chiedere “mordi adagio” o almeno “solleva la testa ogni tanto”.

Con il diritto di chi può, per privilegio di nascita, mangiare il cuore dell’altro quando
ancora è caldo e non per acquistarne il coraggio, ma per divorarlo e basta.
Dal buco del ventre introdusse il coltello per sezionare definitivamente la carcassa
che girata di schiena offriva le costole e le ali piccole e spelacchiate per i voli a bassa
quota dal trespolo al ramo, andata e ritorno e lui fuori come un vero visitatore dello zoo.

Sì, con le ali mozzate sarebbe annegata proprio vicino alla riva, mentre lui con la
barca le girava intorno e urlava “sali presto che aspetti?” Erano troppo grandi e sempre
aperte, bisognava tagliarle, avrebbe risposto, sporgevano dal mio letto.
Teneva fermo il collo inforcato alla base sopra lo sterno e cercava di raddrizzare la
testa per poterla staccare dalla colonna con un colpo secco.

«La testa no!» urlò la donna alzandosi di scatto, con le mani ai lati, sulle orecchie.

Poi prese a tastarsi la nuca, la fronte, il collo, si guardò le mani, i piedi, si accarezzò le
braccia e d’istinto girò la testa indietro per rassicurarsi di non avere penne sparse per il
corpo.

Sorrise e tirò un gran sospiro.

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