Bello! Questo si poteva dire di lui guardandolo.
Saliva per la strada carrozzabile con un camminare sciolto e leggermente dinoccolato. Ogni parte del corpo accompagnava il movimento delle gambe con passi slanciati e decisi. Sotto i pantaloni si indovinava la muscolatura perfetta, sotto la camicia semiaperta si intravvedeva il torace glabro e robusto nella giusta misura. Le braccia lunghe ondeggiavano sui fianchi e spingevano le mani in avanti e indietro.
Un ciuffo biondo girato di lato copriva in parte il viso. Un piccolo gesto della testa, ripetuto più volte, spingeva i capelli di lato, liberando le fattezza perfette del viso e lo sguardo, estremamente duro. Era entrato piegando un po’ il corpo. Un’imprecazione a bassa voce accompagnò il movimento e ancora spingendo con il piede il battente aveva maledetto quella porta con un “va’ a farti fottere” ripetuto tra i denti. Era il nipote più amato, quello che più somigliava alla madre.
Il vecchio stava già salendo le scale, subito ritornò sui suoi passi e se lo trovò davanti. La statura, la pelle chiara e il colore dei capelli. Una meraviglia. Tutto era così amabile che non avrebbe mai smesso di guardarlo. Un groviglio di pensieri lo assaliva e gli riempiva la testa: il viale davanti a casa, lo zio Tony con i suoi cani, la tavola apparecchiata e lui seduto di fianco ad Amelia, confuso da tutto quel via vai di parenti. Vedeva nel nipote uno dei fratelli, non sapeva bene se Paolo o Amleto. Se lo abbracciava e chiudeva gli occhi, ma non soffriva più di nostalgia. Era passato anche quel tempo. Si godeva l’abbraccio e tutto quel luccichio di memorie che a tratti brevissimi parevano portarlo altrove. Forse anche la morte è un attimo di abbandono e via, senza ritorno.
Lo guardava e aspettava le parole, da quelle poteva capire se ancora c’era dentro, in quel brutto giro.
– Sono venuto per farti gli auguri – disse.
– Quali auguri . . . c’è forse qualche festa? – chiese il vecchio stupito.
– Gli auguri di lunga vita, perdio! – aggiunse e rise con tono sprezzante.
Quelle poche parole erano state sufficienti per capire che era ancora nei guai. Però parlava e questo era già un buon segno. Parlava, ma il respiro era faticoso, dopo quella brutta polmonite non si era più ripreso completamente e la droga faceva la sua parte. Altre volte si era presentato pallido e magro, con i pantaloni slacciati e lo sguardo perso. Ogni volta lo aveva tirato fuori. Ma ora non voleva più saperne. Erano troppe le bugie, troppi i soldi. Lo avrebbe solo abbracciato ancora e ancora per dirgli “stai qui, voglio dirti. . . ” “ascolta. . . ” “non andare, ascolta. . .” Era inutile. Sapeva che non si torna indietro. Sapeva che non poteva far nulla. Gli toccava la mano come per dire “taci, non c’è bisogno di dire altro”. Gli metteva a posto il collo della giacca e fingendo di interessarsi ai suoi abiti lo toccava sulle spalle, sul torace, lo accarezzava sul collo e sul viso. Il ragazzo pareva non sentire, abituato a sensazioni ben più forti. Guardava altrove con aria indifferente.
– Anche oggi su quel molo ? – gli chiese con voce beffarda – A sputtanare il tempo. –
– A pescare vuoi dire? Sì, sì certamente. –
– Cosa hai preso, scarpe vecchie o squali ? –
– Poca cosa. Ho regalato i pesci alla vicina come sempre, poi lei mi prepara la zuppa ogni tanto. Per me pescare è come per te andare a ballare.-
– A ballare?!- rise come di qualcosa troppo semplice per lui – Ma io non vado a ballare – aggiunse quasi indignato.
– Ah e dove vai ?-
– In giro. –
Erano arrivati in camera da letto, al primo piano. Il vecchio diretto verso il terrazzo aveva aperto la porta-finestra per affacciarsi sul campo sottostante. Un rumore d’acqua, come di un rubinetto appena aperto giungeva da fuori.
– L’ho fatta aggiustare, guarda, ora funziona perfettamente. Potrò usarla per i campi- affermò il vecchio compiaciuto.
– E perché non usi l’acqua dell’acquedotto, caspita, sarebbe molto più semplice! – ribatté il nipote con una smorfia di sufficienza – o risparmi anche l’acqua! –aggiunse.
– Questa era la cisterna di mio padre e prima ancora era di mio nonno. I Migliarino ci hanno fatto causa per averla e hanno perso – precisò un po’ risentito.
– Certo hai avuto una vita facile tu, accidenti! La casa, la terra, i soldi. – Il vecchio non rispose. Gli doleva un ginocchio. Rientrò in camera e si sdraiò sul letto. Pensava a se stesso prima e dopo e ancora prima e ora. Cosa avrebbe voluto? Forse un corpo caldo nell’angolo del suo letto, o le voci delle donne in giro per casa, forse qualcosa di importante in testa o nel cuore, no, non voleva che quel sentimento ottuso e primitivo di attaccamento alla vita, al luogo, alla forza o neppure, voleva solo sentire il sangue che scorre forte e non conosce che se stesso. Non aveva pietà, né commozione. Di che cosa si accusava? Di finzione, di ipocrisia, l’uomo senz’anima? “Io sono la mancanza – si ripeteva – e non c’è nostalgia ”
Riaprì gli occhi e vide il nipote passare da un angolo all’altro del terrazzo. Con un fischio chiamò un amico che attendeva il suo richiamo e sporgendosi per non farsi troppo sentire gli disse:
– E’ andato a dormire quel porco, ma non c’è rimasto molto qui. Vieni su, puoi entrare dall’altro ingresso.-
Alto e grosso, con gli anfibi ai piedi e un giubbotto lucido di pelle era arrivato fin sulla porta. Il vecchio fingeva di dormire mentre i due confabulavano tra loro. Sapeva bene cosa cercavano. Dopo il furto dell’anno prima, non c’era più molto da rubare, era rimasta solo la cassaforte, ma la chiave nessuno l’avrebbe mai trovata. Sentì i giovani girare per la casa a lungo, spostare i mobili e rovistare nei cassetti, aprire le porte più volte e ancora salire e scendere e poi con rabbia sbattere la porta d’ingresso e ci fu silenzio.
Finalmente si addormentò cullato dal rumore dell’acqua della grande cisterna.
Il giorno dopo il nipote si ripresentò. Il vecchio, non si sorprese, sembrava quasi che lo aspettasse, seduto fuori, nel terrazzo. Un vento di levante, caldo sul viso, rendeva l’aria così densa che quasi si poteva raccogliere a pugni nel palmo della mano. Il cielo era stranamente grigio e cupo e i gabbiani volavano bassi.
– Non è venuto quel tuo amico di ieri ? – chiese alzandosi faticosamente dalla sedia.
– No, no – gli rispose il nipote con fare scocciato – non serve che venga, vero nonno. Io ho tanti amici come lui, potrei chiamarli, ma tu non vorrai. Non ce ne sarà bisogno. Vero nonnino ? – Il nonno finse di non accorgersi del tono minaccioso e prese a raccontare.
– Ti ricordi quando facevamo le gare tu ed io. Tua madre ci guardava dalla finestra e noi su e giù per quella discesa con la bicicletta. Ti facevo vincere allora. Ora non è tempo di gare per me, ma tu . . . ti ho preparato una sorpresa. –
– Una sorpresa ? No, no non voglio sorprese io e poi che cavolo di sorpresa è? – Il vecchio lo afferrò per un braccio e con voce decisa gli chiese: –
– Vuoi la chiave, non è vero? Ecco, la chiave è là dentro, vai a prenderla se sei capace. – Indicò il rubinetto che senza tregua riempiva la grande vasca.
– Nella cisterna? – urlò quasi il giovane.
– Sì, è nella cisterna. Ma tu sei un campione di nuoto. Sarà la prima immersione quest’anno e poi potrai andare a fare il tuo viaggio nei mari tropicali. –
I gabbiani sfioravano gli alberi e le case. Salivano dal lato ovest della collina, a piccoli gruppi. Sparivano dietro il tetto per ritornare a sinistra, proprio dalla parte della vasca. Il loro lamento strideva nell’aria.
– Sei un vecchio bastardo – gridò il ragazzo fissando nervosamente la cisterna – una carogna bastarda – grugniva ancora mentre si fermava per scrutare l’acqua.
– Qui non ci sono che schifosissimi pesci rossi e sul fondo non si vede niente.
Il vecchio lo guardava.
– E’ una gara – disse – dovrai tuffarti e nuotare fino al fondo.-
Un’orrenda bestemmia esplose sulle labbra del ragazzo che cominciò rabbioso a spogliarsi. – – Questa me la pagherai. – imprecò con il viso carico di furore e si lanciò nell’acqua.
Riemerse, prese fiato e ancora si spinse sotto. Sparì per un po’ e poi ancora ritornò a galla. Era pallido e con quella maglietta bianca e i capelli bagnati sembrava un povero annegato.
– E’ freddo, cazzo, e poi è troppo profonda, non arrivo in fondo. – Prese fiato e di nuovo si immerse dandosi una gran spinta con le gambe. Passò ancora più tempo della volta precedente. Il vecchio si era appoggiato al cornicione di ferro e aspettava. Gli occhiali bordati di nero sporgevano dalla testa secca e rugosa. Sembrava immobile.
Riemerse ancora più pallido e scomposto di prima.
– L’ho vista, è in quell’angolo, ora ce la faccio. – Sprofondò con una spinta verticale e l’uomo lo vide sparire nel fondo della vasca.
I gabbiani parevano avvoltoi. Passavano così vicino alla casa che si potevano vedere i loro becchi aperti e gli occhi acuti e mobili. Gridavano con il verso lamentoso di chi soffre, quasi piangevano.
Passò un po’ di tempo e poi ancora un po’, l’acqua in superficie ebbe un movimento circolare. Riemerse appena, tossiva e beveva senza riuscire più a tenersi a galla. Respirava a tratti e ancora tossiva. Sembrava che una mano gelida lo tenesse giù, impedendogli di affiorare. Cercava aiuto con la voce, ma non riusciva a pronunciare parole, solo brevi gemiti subito inghiottiti dall’acqua.
L’urlo dei gabbiani sibilava crudele e ossessivo intorno alla vasca. Pareva una risata. Gli uccelli erano sempre più numerosi. Di ritorno avevano qualcosa nel becco, del cibo che arraffavano nella discarica più in alto, sotto l’autostrada.
Una mano tentò di uscire dal verde limaccioso, poi una spinta di lato e un’onda bassa coprì il bianco del corpo. II vecchio chiuse la bocca in una stretta asciutta, non disse una parola e non fece alcun gesto. Aspettò che l’acqua ritornasse calma quindi si spostò verso il muro. Staccò qualcosa dal tubo della grondaia e prese a tirare una mano dopo l’altra come se facesse scorrere una corda invisibile. Si sporse continuando lo stesso movimento e dalla cisterna uscì un involucro di nylon sostenuto da un filo da pesca. Prese al volo il pacchetto, staccò il filo tirando con forza, lo aprì e rientrò in casa con la chiave in mano.