In TV, su RAIUNO, un brillante storico e influencer giovane, quanto militante, espone garbatamente le sue acute tesi. È vestito in modo ricercatamente trasandato, capelli spettinati, occhialetti tondi. Dice che i nazionalisti contemporanei hanno una concezione statica della Storia, e anziché considerarla un ininterrotto processo, la fermano arbitrariamente – per via del consueto mito delle origini – ad un dato momento, facendo di quest’ultimo un modello eterno, un inizio originario del loro supposto “popolo”. Ma questo è errato – afferma – dal momento che “i Franchi di Clodoveo non erano i Franchi di Carlo Magno e questi ultimi non erano per nulla uguali ai ‘Franchi’ di cui parla la Le Pen!”
Una domanda viene subito fatta dal presentatore – un giovanissimo Strabioli, timido e impacciato – a proposito di quest’ultima frase riguardo la Le Pen: il richiamo all’attualità lo ha probabilmente risvegliato dal sonnolento ascolto di poco prima. Ecco la domanda:
– << Mi scusi, quindi la Le Pen si sbaglia?>> finge uno stupore da domanda retorica, da lezione televisiva dall’alto verso il basso del pubblico, eterno infante.
– <<Senza alcun dubbio!>> risponde gongolando lo storico con uno sguardo d’intesa, per poi continuare elencando una serie di esempi simili a quello appena fatto con i Franchi: i Germani di epoca romana non erano i Germani dell’Ordine Teutonico e così via, così via…
Ma qualcosa accade, e francamente(non nel senso degli indefinibili “Franchi”) ci siamo spaventati parecchio. Il soffitto inizia a spaccarsi e dalle crepe fuoriesce una specie di buio che inghiotte la luce come una sostanza vischiosa quanto impalpabile, poi quel nero comincia a colorarsi di scritte bianche e figure colorate in una inconfondibile grafica teletext (per quanto distorte dalla viscosità e liquidità di quel misterioso buio su cui apparivano). Strabioli caccia un urlo e si nasconde sotto il bancone dello studio. Lo storico fa per alzarsi e chiede cosa stia succedendo, se sia uno scherzo Mediaset o che cosa. Ma nessuno gli bada.
Tutto si fa scuro. Nero pece. Poi una flebile luce. Mettiamo a fuoco e ci accorgiamo che lo studio è totalmente scomparso: al suo posto si profila sempre più chiaramente l’interno di una sotterranea struttura gigantesca che ospita centinaia di colonne alte migliaia e migliaia di metri composte da fasci di tubi ciclopici; tubi la cui superficie è fatta di schermi ricurvi su cui appaiono pagine televideo generiche che cambiano ogni circa venti secondi, aggiornandosi tra lievi rinvii di BIP. Le mura attorno sono disseminate di cavi elettrici di svariati colori e dimensioni. A illuminare tutto: solo la luce degli schermi-tubo.
Come detto, questo intrico di tubature è alto migliaia e migliaia di metri, e per raggiungere i piani più alti bisogna servirsi di un ascensore che sale emettendo un lieve ronzio che s’unisce a quello prodotto dagli infiniti tubo-schermi. Una serie di ponti in cemento armato unisce su vari livelli le innumerevoli colonne gigantesche. Non possiamo rivelarvi di cosa si tratti. Sappiate che negli abissi della Terra è tutto uno snodarsi di queste stanze artificiali quanto pre-umane.
Una voce si fa presente. È quella di Dominique Venner evocato da quel riferimento a Franchi e Carolingi. Se la ride sguaiatamente. Intanto iniziano ad apparire delle inespressive facce femminili bianche, come di bambola di porcellana, attaccate a teste nere di manichino. Ogni capo ha un sottile collo e ad ognuno di essi è attaccata una spina dorsale; queste ultime sono anch’esse nere, metalliche ossa lunghissime, che si proiettano verso il basso senza fine, tanto che ci viene da ipotizzare che siano collegate al fondo – impossibile a vedersi – di quei sotterranei titanici, come se si trattasse di oscuri e infiniti gambi di un qualche tipo d’inumano fiore.
Quei visi iniziano ad aprirsi in due come armadietti e rivelano dietro di essi una specie di buco per lo sfiato. E lì, l’orrore: una serie di urli ne escono, a cui fanno seguito cascate di liquido rosa fosforescente emesse da quei larghi fori. Ma dal rosa passano al blu e poi al giallo, senza mai stabilizzarsi in un solo colore. Ogni tanto da quei buchi orrendi appaiono – assieme alla colorata cascata – pezzi di carne pieni di occhi e denti, con centinaia di zampe aracnidi, che bloccano per qualche momento il flusso di liquido iridescente prima di precipitarsi nel vuoto fischiando come pipistrelli.
Un allarme sinistro parte e rimbomba in modo terrificante per tutte le migliaia e migliaia di metri.
<<Eccovela la indefinibile storiaccia>> urla la voce di un invisibile Venner convinto – come al solito – di aver detto qualcosa di molto profondo, ma in realtà suggerito da una gigantesca e sinistra figura nera, simile nell’aspetto a un bradipo filiforme, o ad un insetto stecco sottilissimo, con una testa minuscola, dotato di esili e lunghe braccia e gambe che finiscono con prolungati artigli ricurvi, argentati, illuminati dalla luce degli schermi; quell’essere s’arrampica lentamente lungo una delle enormi colonne e ogni tanto fissa i suoi piccoli e lucidi occhi neri su un qualche punto, emettendo da essi una luce laser verde che scansiona tutto quello che gli capita a tiro. Questa figura comunica da miliardi di miliardi di strani eoni con la rete neurale di Venner e gli fa dire quello che vuole, anche se appare impossibile capire se ad animarla vi sia una qualche forma di intelligenza o qualcosa di incomprensibile alla mente umana.
Poi tutto si fa di nuovo buio. E infine segue: luce! Si è tornati nello studio di prima, ma sembra come se non sia successo nulla. Beh, in realtà qualcosa è accaduto perché lo storico di prima ora è ben pettinato, indossa l’abito con giacca e cravatta, e al posto dei tondi occhialetti, degli occhiali rettangolari. Ed espone le sue acute tesi. Dice che gli internazionalisti contemporanei hanno una concezione statica della Storia, e anziché considerarla un ininterrotto processo, la fermano arbitrariamente – per via del consueto mito della fine della storia – ad un dato momento presente, facendo di quest’ultimo una specie di approdo, una supposta fine di ogni narrazione interessata, di ogni costruzione interpretativa. Ma questo è errato – afferma – dal momento che “è del tutto impossibile pensare che ad un certo punto la Storia si fermi e i suoi protagonisti smettano d’inventare narrazioni di essa, smettano di avere finalità storiche, e interrompano il darsi immaginari inizi e immaginarie mete per decorare e legittimare i loro presenti scopi politici; così come Carlo Magno credette di rifarsi ai Franchi di Clodoveo, così anche la Le Pen crede ora di rifarsi a quelli di Carlo Magno e così in futuro altri crederanno di avere una qualche parentela diretta con i francesi della Le Pen; è l’eterno ciclo delle narrazioni, delle storie: pensare di fermarlo è antistorico, è come volersi sfilare dalla Storia con la ‘S’ maiuscola per guardarla da fuori; insomma: una ridicola e pia illusione!”
Una domanda viene subito fatta dal presentatore – un giovanissimo Strabioli, timido e impacciato – a proposito di queste ultime frasi riguardo la Le Pen: il duplice richiamo all’attualità lo ha probabilmente svegliato dal sonnolento ascolto di poco prima. Ecco la domanda:
– << Mi scusi, ma quindi..>> non riesce nemmeno a finirla perché la risposta è fulminea:
<<BRAVAAAAAA!>> grida Nino Frassica.